Così l’avanzata della Xylella minaccia i vivai e il turismo

Cambiare strategia
19 giugno 2017

Undici milioni di euro. Meglio che niente, certo. E bisogna dare atto al ministero dell’Agricoltura di aver almeno dato un segnale a chi in Salento sta perdendo tutto: il raccolto, il reddito, il lavoro. Anche la memoria di generazioni, insieme agli alberi secolari. Un segnale arrivato, si lamentano gli olivicoltori, dopo tanto tempo. Forse troppo. Da tre anni un batterio micidiale chiamato Xylella fastidiosa sta uccidendo gli ulivi. A migliaia. La chioma ingiallisce, poi incupisce, quindi le gole cadono e l’albero si secca. Senza che sia stata trovata una cura. Negli stati uniti il caso viene studiato da decenni, inutilmente. L’unica terapia che si sta applicando per combattere questa emergenza nazionale è quella terminale: sradicare le piante.

Così hanno sentenziato al ministero, ha convenuto la Regione Puglia e hanno definitivamente decretato a Bruxelles, imponendo l’espianto di tutti gli ulivi infetti. E non degli ulivi soltanto. Ma anche delle piante che potrebbero ospitare il batterio nel raggio di 100 metri. L’obiettivo è creare una fascia di protezione per evitare che il morbo risalga la penisola. Una terra di nessuno dallo Ionio all’Adriatico, che tagli in due il tacco d’Italia. Gli esperti prevedono che debbano essere sradicati fino a 35 mila ulivi. Il che significherebbe tagliare definitivamente fuori, e forse condannare, l’intera provincia di Lecce, e magari anche un pezzo di quella di Brindisi, dove si trova il tesoro più ricco degli ulivi secolari. Alberi di trecento, cinquecento, mille anni. Alberi le cui origini si perdono nella notte dei tempi, che sono l’essenza stessa di questo paesaggio incantevole. Che ovviamente non sarebbe più lo stesso, senza di essi. Con conseguenze che nessuno, allo stato attuale, sembra sia in grado di prevedere. I vivai, per esempio. Le disposizioni per contenere la Xylella fastidiosa prevedono la distruzione di tutte le specie potenzialmente contaminabili: dagli ulivi agli oleandri, ai mandorli, ad altre piante da frutto. E prevedendo anche il divieto della loro riproduzione. L’embargo fissato alle importazioni di piante da alcuni Paesi, a partire dalla Francia, è stato il colpo di grazia.Il fatturato del settore vivaistico nella provincia di Lecce è calato del 70% e le aziende hanno iniziato a licenziare. I 150 vivai della zona sono letteralmente in ginocchio.

E poi il turismo. Per ora si parla soprattutto dei danni all’agricoltura, ingenti. Ma lo sfregio inferto al paesaggio dal batterio prima e dalle eradicazioni poi non potrà non avere ripercussioni anche sulla più importante industria del Salento. Tre anni, sono passati da quando il morbo si è manifestato, fra Taviano e Gallipoli. Tanti, per non sospettare ritardi, manchevolezze e superficialità nell’affrontare il problema. Da parte di chi? Probabilmente la responsabilità è un po’ di tutti. Dagli agricoltori, che magari non hanno compreso subito la gravità della faccenda. E c’è chi punta il dito contro l’uso indiscriminato di diserbanti e agenti chimici. Come pure la scarsa manutenzione dei terreni: al punto che ora la Regione Puglia ha imposto l’aratura obbligatoria, pena multe fino a 3 mila euro per ettaro.

Né si possono escludere, se come pare ritardi ci sono stati, responsabilità delle stesse strutture regionali. Ma nemmeno del governo, dove si è faticato a mettere a fuoco la dimensione del flagello: ma si sa, in Italia l’agricoltura non è mai stata in cima all’agenda degli impegni di qualunque esecutivo. Di sicuro il batterio è arrivato con piante da importazione. E qui non possono che nascere perplessità sulla qualità dei controlli, sulla competenza di chi è incaricato di farli, sulle quarantene che non esistono. Così ora è ancora più dura accettare l’imposizione dell’espianto. A Oria, nel brindisino, dove sono iniziate le eradicazioni, c’è chi ha inscenato clamorose proteste, arrivando ad incatenarsi agli ulivi. Mentre un ricorso al Tar ha bloccato le ruspe. Si sono messi in moto i magistrati, per verificare la legittimità degli espianti. Ci sono associazioni e gruppi di agricoltori che insistono: strappare gli ulivi dalla terra non è soltanto dannoso e devastante, ma del tutto inutile visto che le piante, trattate con i rimedi tradizionali, sono in grado da sole di sconfiggere la Xylella. Portano anche le prove. È uno spettacolo che stringe il cuore, intorno al quale non smettono di fiorire teorie e leggende. Gira la voce che il batterio sia stato diffuso da untori che fanno gli interessi di chissà quale multinazionale. Mentre c’è chi continua a sostenere la tesi che l’arrivo della Xylella vada messa in relazione con un convegno che si era tenuto ben cinque anni fa a Bari, in un istituto internazionale che ha il privilegio della extraterritorialità. Storie che non hanno avuto alcun riscontro, e che secondo la migliore tradizione italiana servono solo a gettare le responsabilità al di là del recinto di casa propria. Davanti alle dolorose decisioni di queste settimane non possono comunque che restare dubbi. Il dubbio che sia stato perso troppo tempo prezioso prima di intervenire. Il dubbio che la ricerca di metodi per sconfiggere il batterio abbia davvero percorso tutte le strade possibili. Il dubbio che l’espianto di ulivi secolari sia l’unico rimedio. Il dubbio che un flagello simile si possa affrontare con i mezzi scarsi che vengono destinati all’agricoltura. E il dubbio che dal nostro governo (nel suo complesso, precisiamo), come anche dall’Europa, sarebbe lecito attendersi un impegno più consistente dei pur necessari aiuti economici e della logica dei bulldozer.

Corriere della Sera
di Sergio Rizzo